La parola consapevolezza, in inglese mindfulness, è diventato il nuovo mantra della nuova cultura new age; una specie di parola d’ordine, una sintesi estrema, una via di auto realizzazione, una filosofia e perfino una “nuova” psicoterapia.
Se operiamo una prima distinzione fonetica fra il termine italiano e quello inglese ne rileviamo le differenze: il termine inglese è completo in sé. È la pienezza mentale, l’esserci, la consapevolezza del qui e ora, libertà dai condizionamenti dei pensieri erranti che non ci appartengono; è, in altre parole, quella che in psicosintesi si chiama “disidentificazione”.
Se approfondiamo il discorso e ci riferiamo alla lingua italiana, “consapevolezza” è invece un termine ambiguo, impreciso, aleatorio.
Consapevolezza di che? Consapevolezza di cosa?
Se non si specifica di cosa bisogna essere consapevoli il termine in sé è privo di significato.
Anche dire che dobbiamo essere consapevoli del qui e ora ecc. non fa altro che richiamarsi al termine inglese e , infatti, qualcuno ha già cominciato a parlare di “consapevolezza mindful” (Mauro Semenzato http://www.biosomatico.com), fondendo i due termini in una specie di mostriciattolo semantico.
Lo stesso termine psicosintetico “disidentificazione” che, fra parentesi, è stato proposto da Assagioli molti decenni prima che scoppiasse la moda mindfulness, diventa ambiguo e impreciso se non sappiamo da cosa dobbiamo disidentificarci e come.
In quest’ambito, tuttavia, la psicosintesi da indicazioni precise ed esaustive.
Non si può dire la stessa cosa in relazione al termine “consapevolezza”. Se non abbiamo le idee chiare di cosa dobbiamo essere consapevoli e come diventarlo è lo stesso che parlare di aria fritta.
Quando parliamo di essere consapevoli di ogni atto della nostra vita quotidiana, quali camminare, mangiare, parlare, lavorare ecc. cosa realmente stiamo dicendo e cosa realmente stiamo comunicando all’umanità?
Pensiamo che sia veramente così facile raggiungere questo stato nella nostra società?
Forse stiamo proponendo un’altra illusione?
Se tentiamo di essere un po’ più pragmatici allora potremmo provare a dare una risposta alla domanda sopra posta fra parentesi: essere consapevoli di cosa?
La nostra proposta è che dobbiamo imparare ad essere consapevoli della nostra buddhità, intendendo con questo termine uno stato di coscienza specifico e ben conosciuto che possiamo anche chiamare stato buddhico o mente intuitiva che si raggiunge attuando certe tecniche di meditazione altrettanto ben conosciute.
Quando raggiungiamo questo stato e siamo in grado di restarci regolarmente e stabilmente per il tempo che vogliamo utilizzare a questo scopo, allora la nostra vita quotidiana può cambiare fino al punto in cui potremmo essere in grado di rimanere costantemente in questo stato.
Dobbiamo essere consapevoli (sic!) che ottenere questa realizzazione non è facile e non è riservato a tutti perché presuppone il raggiungimento di una condizione oltre la norma ordinaria, espressione di sufficiente equilibrio fisico, emozionale e mentale che si deve manifestare con una personalità abbastanza equilibrata.
In altre parole il nostro obiettivo reale non è quello di vivere sempre in un’ ampolla di beatitudine ma di sapere rispondere adeguatamente ai bisogni e alle sfide della vita quotidiana illuminati dalla presenza dell’anima che si esprime, appunto, a livello del piano buddhico.
Essere, quindi, consapevoli della nostra capacità di vivere con questi parametri, significa praticare regolarmente la meditazione che ci permette di accedere al piano buddhico e da questo dominare la realtà, utilizzando i sistemi che quivi si trovano come elementi educativi di crescita e di sviluppo.
Altre vie, più o meno modaiole, che usano a proposito o più spesso a sproposito sia il termine consapevolezza che mindfulness, organizzando corsi di formazione o scuole di terapia con tanto di crediti ECM, rischiano di essere l’ennesima merce perfettamente inserita nella logica del profitto e degli affari, tipica della nostra epoca e della nostra società.