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Capitolo primo

Sono le prime sei pagine del primo capitolo del mio romanzo “Le fragole degli dei”. Il titolo è:”Una fragola meccanica”. Il riferimento ad Arancia Meccanica il film di Kubric a sua volta tratto da un romanzo omonimo di Anthony Burgess (https://it.wikipedia.org/wiki/Un%27arancia_a_orologeria) è chiaro. La differenza è che nel mio romanzo la protagonista Carol reagisce a chi vuole violentarla ed ucciderla in maniera imprevedibile e come si addice ad una maestra di “daito ryu aiki budo”. E’ un romanzo che evidenzia la forza di un femminile che si rivolta contro il maschile animalesco e brutale. Ma è un femminile che si ritrova puro pur nella violenza che rivive i suoi archetipi e ritrova un maschile a sua volta purificato dal dolore.
E’ un romanzo tutto da leggere. Aspetto le vostre opinioni. Vi ricordo che si può scaricare gratis dal sito: youcanprint.it.

Carol

Carol Lamberti era una cara e simpatica, non proprio giovanissima, signora. Una donna alta, minuta e asciutta: il fisico ancora integro e atletico. Solo il volto, pieno di rughe, non celava la sua età: sessantotto anni. Esprimeva, contemporaneamente, i tratti di una soave gentilezza e di una fiera e indomita capacità combattiva. Abitava in una villetta un po’ isolata, posta proprio in cima a una collina, dalle pareti di facciata lattescenti, le quali si confondevano con il candido nitore dei fiori coltivati tutto intorno alla sua casa. Il suo giardino era una fiumara di crisantemi bianchi, posta di fronte alla casa a dare conforto, un senso di purezza, di candore, forse a proteggere, magicamente, la sua dimora.
La sua villetta, aveva all’interno spazi ampi, pochi mobili, esprimeva la ricerca della pace interiore ed emanava un senso di profonda serenità, esaltata anche da due olmi bonsai, molto vecchi, posti sul pavimento, proprio ai due lati dell’ingresso e coltivati dalla donna con infinito amore.
Carol era un’insegnante di yoga, ma amava e praticava anche altre varie, discipline – anche marziali – ; alcune segrete e non ben note neppure ai suoi amici più intimi e fidati. A volte, spariva per intraprendere lunghi viaggi. Non si sa in quali luoghi si recasse e perché. S’incontrava, inoltre, regolarmente con alcuni misteriosi individui, assieme ai quali praticava discipline esoteriche nel piano superiore della sua villa.
Quella sera si trovava nel grande salone fucsia della sua casa, erano quasi le ventidue, stava finendo i suoi esercizi di hatha yoga e una musica dolce e suadente cullava le sue orecchie; la melodia del sitar, incalzante, elettrica, irrorava le sue vene diffondendo le note di un raga velato di antiche e magiche vibrazioni.
Aveva assunto la posizione del guerriero, una delle sue preferite. La faceva sentire forte, pregna di un’energia arcaica, che attraversava e vivificava il suo corpo e la sua anima.
Mentre era impegnata nell’esecuzione di questa asana , sentì, improvvisamente, suonare il campanello della porta. Si drizzò lentamente e, con passo leggero e felpato, si volse verso l’uscio. Prima di aprire il portone accostò il suo orecchio al citofono e immediatamente una voce maschile, rotta dall’emozione e dalla paura, le chiese di entrare perché si era verificato da poco un incidente automobilistico nelle vicinanze e qualcuno aveva bisogno di aiuto. Carol non ricordava di avere sentito nulla che avrebbe potuto fare riferimento a un incidente stradale: né uno schianto, né una frenata, ma pensò che la musica, e l’essere assorta nella meditazione, avrebbe potuto renderla sorda ai rumori esterni.


Uno strano presentimento, un’arcana inquietudine, serpeggiò nella sua mente, ma la condizione di meditazione in cui si trovava aveva come ovattato la sua attenzione e la sua percezione intuitiva del pericolo.
Carol aprì la porta lentamente, senza togliere la catenella metallica, che bloccava l’ingresso; ma subitaneamente, un sottile bastone s’infilò nello spazio fra la porta e lo stipite e rimosse il blocco. Un poderoso spintone aprì la porta e cinque giovani, abbigliati in abiti trasandati, dall’aspetto esteriore poco curato e dalla nazionalità incerta, s’introdussero, con veemenza, nella casa.
Carol fu spinta a terra e cadde rovinosamente.
I cinque entrarono sghignazzando.
Uno di loro si scagliò sulla donna, la prese per le ascelle e la scaraventò sul divano; quindi estrasse dalla larga tasca dei pantaloni sdruciti un lungo e acuminato coltello, dalla lama affilata, che poggiò risolutamente sulla pelle della gola di Carol e, guardandola negli occhi, con uno sguardo traboccante di rabbia, le disse:
«Vecchia puttana, se ti muovi, ti facciamo fare la fine di Janette. Ora stai ferma e, forse, ne uscirai viva!». Mentre diceva questo, gli altri rovistavano dappertutto, senza alcun riguardo, dentro la casa, alla ricerca di preziosi. Uno di loro, che sembrava essere il capo, si volse verso quello con il coltello e, in preda a un accesso d’ira incontrollabile, si scagliò verso di lui, sferrandogli un pugno nello stomaco. Costui cadde contorcendosi.
«Imbecille, maledetto animale!», urlò l’uomo. «Che cosa hai detto? Ci hai fatto scoprire! Non sai tenere chiusa la bocca?».
«Scusami, Siryus, non lo faccio più», precisò l’altro, gemendo per il dolore.
Carol era inebetita, sorpresa da quella violenta e selvaggia aggressione. Si trovava sul divano, rannicchiata in una posizione fetale, ma la sua mente cominciava a svegliarsi. In un attimo capì che quei giovani l’avrebbero uccisa, come avevano fatto con Janette, alcuni mesi prima.
Janette era la sua allieva prediletta. Giovane, bella piena di vita, che era stata violentata e uccisa, con un colpo di pugnale al cuore dagli stessi sdruciti assassini, arrivati ora nella casa di Carol e che si erano anche divertiti a cavarle gli occhi e, poi, a tagliarle la lingua, per non farla urlare troppo.
Carol non era soltanto una donna avvezza nella disciplina dello yoga, ma – da molti anni – si dilettava anche nella pratica di un’arte marziale giapponese, occulta e micidiale, che poteva essere insegnata solo segretamente.
Lei aveva scoperto quest’arte praticando, in Giappone, lo yoga del buddismo shingon , che il maestro Wuanikaburo Yoshitomo, ultimo esponente del lignaggio degli yamabushi – leggendari monaci guerrieri celati nelle montagne giapponesi – le aveva fatto giurare che non la avrebbe mai resa pubblica.
Carol comprese che forse era il caso, vista la situazione, di applicare quest’arte per la prima volta in una situazione reale ed esprimere ciò che aveva imparato in anni di pratica in palestra.
Il capo prese in mano il suo lungo pugnale e si diresse risolutamente verso Carol, ma uno dei tre, il più giovane dai capelli impomatati e lucidi che sembravano comporre un vello da istrice sul suo cuoio capelluto, lo fermò e gli disse:
«Dai, non è poi così male! Anche se è una vecchia gallina, forse ci potremmo divertire lo stesso, prima di ammazzarla!».
«Tu sei soltanto un depravato», sentenziò il suo capo. «Questa vecchia non ce la facciamo! A me fa schifo, mi ricorda mia nonna! Solo un porco come te può pensare queste cose. Questa non è come Janette: con quella, sì che ci siamo divertiti! Ti ricordi come urlava? Questa, no! Questa la ammazzo subito … e … come dico io!».
Così dicendo, pose il pugnale a terra e si volse verso una scultura situata poco lontano, su un piccolo tavolo di mogano, finemente intarsiato. Era un lingam proveniente dall’India. Una scultura in quarzo, lunga circa quaranta centimetri, la cui forma di fallo doveva avere ispirato i suoi pensieri perversi.
I quattro si fermarono a guardare, attratti morbosamente; il loro capo prese il lingam con due mani, si diresse verso Carol, sollevò la scultura, per colpirla e per affondarlo nelle viscere della donna, intimando agli altri: «Voi quattro, prendetela, toglietele i vestiti e allargatele le cosce, adesso la faremo godere veramente!».
I quattro si diressero verso di lei, che si trovava ancora rannicchiata sul suo divano color crema, ma prima che loro arrivassero, lei riuscì ad alzarsi, rivelando un’insospettabile agilità, si diresse verso il pugnale, che era a terra e lo brandì con decisione, con la sua mano destra.
A volte i piani della coscienza si intersecano e si mischiano e ciò che consente di dominare la realtà è riuscire ad essere contemporaneamente dentro e fuori di essa e, mentre Carol sembrava subire gli esiti di una violenza intollerabile, gli echi di un’antica civiltà risuonarono in lei – provenienti dal suo inconscio superiore che da quel momento in poi si sarebbe fatto sentire molte altre volte dandole il potere di cui aveva bisogno – percepiti come “Coro” di femminili, tangibili, presenze: voci fuori campo, figlie della coscienza collettiva umana variamente espressa, in quel caso, nelle culture minoiche della Grecia antica, liberi riverberi di primigenie forme poetiche in grado di elevare il quotidiano e donare a Carol nuove “divine” energie per superare la terribile prova che la attendeva.
“Ed ecco i cinque iniziano a sbavare
da occhi rossi di fuoco,
impetuosi bestemmiatori,
le orbite immote,
fissi gli sguardi,
repentini si volgono
a ghermire la magra gazzella
che rapida, invece, si sottrae
alla loro stretta mortale
e divenuta felina predatrice
si avventa sul pugnale,
a terra imprudentemente gettato
e con rabbia contratta,
fiera impudicizia lo brandisce,
tesa la mano destra
quale fallo vorace di sangue si pasce.”

Rimase ferma, in piedi, con il pugnale in mano e il braccio minacciosamente proteso contro i cinque, che si fermarono all’unisono, a circa un metro da lei, più divertiti che sorpresi.
Carol fece roteare il pugnale in modo che la lama fosse coperta dall’avambraccio. Era visibile solo l’impugnatura dell’arma, che emergeva dalla mano serrata. Il più stupido dei cinque, un ragazzone obeso, flosce guance ispide, canottiera rosa, pantaloni bianchi cadenti, lunghi capelli arruffati, si diresse, con goffo incedere, verso di lei per disarmarla. Quello che sembrava il capo si accorse della manovra attuata da Carol che le consentiva di usare l’arma con certe procedure molto efficaci e urlò rivolto al suo accolito: «Attento, la vecchia sa usare il pugnale!»
Non riuscì a salvarlo!
Lo stupido si diresse verso la mano di Carol per disarmarla.
E Carol, ancora una volta, sentì – nel profondo di sé – la medesima voce ispirata e corale che così recitava, per lei:
“ Egli non poté afferrare la sua mano,
ché rapida volteggiò nell’aria
come diafana farfalla
di morte portatrice.”
Due colpi furono sufficienti, inferti dalla donna con precisione chirurgica, entrambi a livello della giugulare destra dell’uomo; il primo colpo tagliò la sua gola da destra a sinistra, il secondo, roteando il polso, da sinistra a destra.
Una sorta di croce rossa improvvisamente comparve sotto il mento dell’uomo e da questa il sangue ne sprizzò irrefrenabile, a getti copiosi, macchiando di rosso il divano color crema, infiltrandosi indegnamente fra le serrate maglie del suo manto di stoffa e, zampillando sul pavimento di vetro-ceramica luminescente, si espanse in quella superficie, dilagando in timide e rilevate chiazze rossastre. Lo stupido, sorpreso dalla reazione di Carol, rimase un attimo come interdetto, stupefatto; poi, improvvisamente, malfermo sulle gambe, si accasciò a terra, componendo una strana posizione col suo corpo, che sembrava quasi fetale.
Cercò di fermare la fontana di sangue, che fiottava esuberante dalla ferita, con la mano posta a serrare la sua gola, ma l’arteria carotide e la vena giugulare erano state lese seriamente.
Era già pallido.
Iniziò a rantolare.
Stava morendo lentamente.